Una suora nel far west – L’epistolario ottecentesco della missionaria italiana che «convertì» il fuorilegge Billy the Kid

UMBERTO FOLENA

Terra dura per gente dura, il West. Ce lo assicurano i film, le fotografie e le testimonianze. In tanta durezza, la fede deve adeguarsi, giusto? Così quando pensi al West e agli “uomini di Dio”, ti vengono in mente le carovane dei Mormoni, tutti alti e neri, con il cappellone e la barbona, in marcia verso lo Utah assieme alle tante mogli e agli innumerevoli marmocchi. Oppure il reverendo di Sentieri selvaggi, giudice, sceriffo e pastore al tempo stesso, che prima o poi si sbaglia e appende la Colt e mette il crocifisso nella fondina.

Terra dura, dunque fede dura. Così la letteratura celebra la legge tout court, degli uomini e di Dio, come il reverendo di John Ford. Una terra disordinata ha bisogno di ordine, quindi adeguiamoci: il codice e la Bibbia, e la Colt per farli rispettare. Spazio per la tenerezza pare restarne poco. Così le donne si riducono a comprimarie: fedeli compagne, salvo rare eccezioni (ma Calamity Jane doveva avere poco di femminile). Il West è maschio.

Eppure, dritto dal ventennio più celebrato della frontiera, l’ultimo quarto di secolo che vide domare l’Ovest selvaggio, esce un diario straordinario perché ci parla di una donna; di una donna di fede; che s’impone per la sua ferma dolcezza. Un donnino minuscolo, sbucato però da una terra che, incastrata com’è tra mare e monte, produce tipi tenaci e poco propensi alle svenevolezze. Di una donna che costruì l’Ovest quanto sceriffi e cow-boys. Una donna, una suora italiana. La sua storia è narrata in Suor Blandina, una suora italiana nel West (editrice Neri Pozza, pagine 310, lire 26.000) da lei medesima in un “diario epistolare” fatto di lettere inviate alla sorella maggiore, religiosa pure lei, dal 1872 al 1893, diario apparso la prima volta nel 1932 (At the End of the Santa Fe Trail) e ora tradotto da due insegnanti liguri, Cristina Podestà e Anna M. Sanguineti. Ma stiamo correndo troppo: la storia comincia 145 anni fa…

Rosa Maria Segale nasce a Cicagna, in provincia di Genova, il 23 gennaio 1850 da Francesco e Giovanna Malatesta. È la più piccola di cinque figli e quando ha appena 4 anni la famiglia parte per l’America. Mèta abituale dei liguri è il Sud; invece papà Segale sceglie il Nord, e per di più l’Ohio. A Cincinnati gli inizi sono durissimi; ma poi apre un negozio di frutta e verdura, quindi una pasticceria, e arriva un certo benessere. Rosa Maria intanto compie 16 anni ed entra nell’ordine della Suore della Carità con il curioso nome di Blandina, imitata in seguito dalla sorella maggiore Maria Maddalena (suor Giustina).

A vederla nelle fotografie e nei disegni, suor Blandina non aveva certo l’aspetto del pioniere. Un soldo di cacio, e pure occhialuta. Ma i superiori dovevano aver capito che la stoffa c’era se nel novembre 1892, a nemmeno 23 anni, la inviano a Trinidad. Sarà l’inizio di vent’anni di frontiera, lungo la linea ferroviaria di Santa Fe, tra Colorado e New Mexico. Suor Blandina affronterà desperados e indiani, costruirà scuole e ospedali. Ma soprattutto sarà donna di frontiera tout court, in perenne movimento, con straordinaria capacità di adattamento alle situazioni più diverse. Ad esempio, un motivo ricorrente del libro è il celeberrimo Billy the Kid, il fuorilegge ragazzino, celebrato in innumerevoli film nei quali ovviamente suor Blandina non c’è.

Suor Blandina acuta psicologa e, in epoca impensabile, maestra di evangelizzazione. L’episodio più istruttivo è quello che la vede alle prese con un uomo del Kid ferito e abbandonato in una capanna. Blandina lo va a trovare. Immaginiamoci una suorina peso piuma, infagottata di nero, di fronte ad un killer spietato. Blandina lo guarda e lo apostrofa: «Vedo che soltanto una pallottola nel cranio potrebbe metterla veramente fuori combattimento». Era l’unica frase che potesse colpire un duro, che si aspettava seminai una predica, un invito alla conversione, un brodo di buoni sentimenti. Blandina non gli parla mai di Dio. Aspetta. Sarà il desperado a confidarle: «Le sue parole mi hanno dato coraggio», e ad aggiungere, dopo l’elenco dei suoi crimini: Dio mi perdonerà?

Blandina cita il Vangelo del Padre misericordioso. E il desperado, ormai vicino alla morte, rivela il suo curioso – ma coerente . mondo “spirituale”: «Le dirò quello che penso che Dio farà. Tramite lei, mi condurrà a chiedere perdono per le mie malefatte. Mi sta allettando, come io allettavo coloro che avevano denaro; poi, quando mi avrà, mi getterà all’inferno, più rapidamente di quanto io non mandassi all’altro mondo le mie vittime. Ora cosa ne pensa, sorella?». Blandina ricorda il ladrone in croce accanto a Gesù. Non spreca parole, non le intinge nella melassa.

Intanto ha conosciuto Billy the Kid; ha ottenuto che non ammazzasse i 4 medici che s’erano rifiutati di curare il desperado; che non attaccasse una diligenza. Al Kid quella suora senza fronzoli e con il fegato di un desperado deve piacere. S’incontreranno ancora. Alla morte del Kid, suor Blandina commenterà: «La vita è un mistero. E il cuore umano? Un misto di bontà e cattiveria. Chi ha mai capito come funziona? Un momento è diabolico e subito dopo angelico».

Suor Blandina ha la vista lunga. In epoca insospettabile comprende il dramma degli indiani e parteggia apertamente con loro. L’unico aggettivo che trova, sempre lo stesso, è «poveri»: «Poveri cuori selvaggi! Come traboccano di rabbia e di offese subite! Lontani dalla loro riserva credono ancora che l’aria che respirano sia loro (…). Poveri, poveri indiani! Sono destinati ad avere la peggio. In seguito, dovranno strenuamente osservare le regole della riserva, diminuiranno di numero e si estingueranno (…). Poveri indiani! Quando capiranno che i conquistatori vogliono la loro terra? Quanto tempo impiegheranno a riconoscere gli impostori?».

Suor Blandina è poco tenera con l’amministrazione americana: «Il denaro elargito dal nostro governo e mal gestito dagli agenti contribuisce a sterminarli». E ancora, con estrema durezza, denuncia l’ipocrisia della tanto celebrata democrazia statunitense: «Il nostro governo, che disprezza ogni atto che sa di tirannia, fa finta di niente e stermina una razza che ha tutti i diritti di vivere sulla terra che chiamiamo America». La citazione è del 1873.

Nel 1893 suor Blandina viene richiamata nell’Ohio, dove fonda scuole e case per gli immigrati italiani. La ritroveremo il secolo dopo, nel 1931, alla veneranda età di 81 anni a Roma, dal Papa, per chiedere la beatificazione della fondatrice delle Suore della Carità, madre Elizabeth Seton. Morirà a 91 anni, nel 1941.

Grande suora e, ulteriore sorpresa, ottima narratrice, molto americana: stile partecipe ma asciutto, ironico, senza un aggettivo di troppo, in grado di reggere pagine di fila di discorso diretto. Anche nel descrivere imprese temerarie, suor Blandina non si prende mai troppo sul serio e racconta sorridendo. Nei drammi il sorriso diventa amaro, ma non c’è mai compiacimento. Finita una storia ne comincia un’altra: proprio come la gente di frontiera, che esplorava, conquistava e subito ripartiva. Con la sua fede giocata di frontiera in frontiera, mai autocelebrativa ma sobria e tenace, suor Blandina è personaggio di estrema modernità. Capisce che la frontiera e il cuore umano sono uguali: capirli è impossibile, e allora l’unica è conquistarli.

Umberto Folena, «Una suora nel far west. L’epistolario ottecentesco della missionaria italiana che “convertì” il fuorilegge Billy the Kid», in “Avvenire”, domenica 21 gennaio 1996, p. 17.

Foto di apertura: Copertina di “Suor Blandina, una suora italiana nel West” / dimanoinmano.it. A seguire, un ritratto di Suor Blandina / fermenticattolicivivi.wordpress.com e una rara immagine di Billy the Kid. La vita del fuorilegge è stata commentata da sister Blandina nel suo diario At the End of the Santa Fe Trail / it.wikipedia.org.

Bisanzio. Apocalisse per un impero

di GIORGIO MONTEFOSCHI

Il 13 aprile del 1204 l’esercito della quarta crociata espugnò Costantinopoli. Baldovino, conte di Fiandra, s’attribuì il titolo di re: finiva, temporaneamente, d’esistere, l’Impero romano d’Oriente. In città, i soldati s’abbandonavano al saccheggio e allo stupro, profanavano i palazzi e le chiese, rovesciavano i mercati e le mense. La gente fuggiva, terrorizzata.

Fra costoro, c’era un uomo che questa sciagura l’aveva prevista da tempo. Si chiamava Niceta Coniata: era stato governatore, oratore di corte, giudice del Velo. Quando la distanza glielo consentì, si gettò al suolo, e, piangendo – in un empito di disperazione dantesco – rimproverò le mura di «rimanere in piedi», insensibili al pianto: Si compiva una tragedia immensa. Come era potuto accadere che un secolo tanto prospero e ricco per Bisanzio, come il, secolo dodicesimo, si concludesse in tal modo?

La risposta a questa, e a molte altre domande, è nelle pagine luminose e fosche di una narrazione cronologica (Grandezza e catastrofe di Bisanzio) tra le più affascinanti che siano mai state scritte. Il suo autore, l’uomo prostrato al suolo, volle che coprisse gli eventi di cento anni. Di alcuni possedeva la tradizione orale e scritta; di altri – il regno di Andronico, quello di Isacco Angelo – era stato testimone con i suoi occhi. Convinto che la storia fosse nelle mani di Dio (Dio interviene nella storia: punisce, giudica, talvolta è sordo ai lamenti), pensava, altresì, che molto, nel compiersi di codesto destino, dipendesse dalle buone o dalle cattive intenzioni, dalla volontà dell’uomo.

Secondo il suo giudizio, e quello di chiunque avesse la capacità di intendere (benché, spesso, gli uomini tendano a non vedere il male che si dissimula nel bene, il vizio accanto alla virtù), i cittadini della favolosa città in riva al Bosforo, risplendente d’ori, argenti, marmi, capitale di un impero ben amministrato e ricco, erano preda ormai ineluttabile di un animale mostruoso, nutrito dai peggiori sentimenti: la corruzione, l’adulazione, la menzogna, l’avidità. Tutti erano corrotti: la corte, i burocrati, il clero. La porpora imperiale era intrisa di crudeltà sanguinaria. I burocrati adulavano senza freno: erano falsi, ingiusti, servili. I vescovi, e i monaci dei mille monasteri, erano nemici di Dio. La folla era come il vento: oggi acclamava un idolo, domani avrebbe lastricato di ingiurie, fisiche e verbali, il cammino del suo supplizio. E tutti denunciavano tutti: i fratelli si dovevano guardare dai fratelli, i padri dai figli. Neppure il sonno era ignaro di dolore e dolce, privo di affanno: «appena si posava sulle palpebre, volava via», cacciato dalle immagini ingannevoli, dagli spaventosi incubi del giorno.

Nella prefazione all’opera, Alexander Kazhdan suggerisce di leggere la Storia di Niceta come un accumulo di anelli a catena: stereotipi, replicati nel tempo, dei fatti e della figura umana.

Questo ripetersi ha qualcosa di inquietante e grandioso. Il lettore assiste a incoronazioni e deposizioni, usurpazioni e complotti. Vede la gloria dei potenti sorgere e cadere. Conosce particolari dedizioni alla ferocia e al vizio, alla debolezza e all’inganno. Tuttavia, difficilmente riuscirebbe a distinguere – nella memoria – fra un usurpatore come Isacco Comneno e un usurpatore come Alessio Brana; fra un protosebasto corrotto e un altro; fra un patriarca corrotto e un patriarca pio. Certo, le figure degli imperatori si stagliano nel prospetto dell’iconografia bizantina frontale e immobile; contribuiscono grandemente (animati dalla penna acuta, amorevole e scettica di Niceta) a muovere il gran corteo dei volti scavati, delle barbe ravvolte, degli occhi infuocati e spenti: insieme a quello delle imperatrici dissolute, delle concubine, delle etere. Ma il loro tentativo di isolarsi sulla scena del mondo sembra destinato a fallire in partenza; ad essere riassorbito: in una estenuazione del male destinata a durare all’infinito.

La corte, del resto, è lo specchio fedele della dissoluta immobilità del mondo. I Normanni o i Crociati, gli eserciti ribelli dei Valacchi e dei Bulgari, le fazioni degli usurpatori e i mercenari al soldo, fanno tremare le mura di Nicea e Salonicco insanguinano la Serbia e la Tracia, l’Armenia e la Cilicia: nelle sale ombrose de palazzi di corte (collegati da gallerie e cunicoli degni di una planimetria di Borges) la depravazione non conosce riposo.

Cosa importa che l’imperatore sia il sedicenne Alessio, Andronico o Isacco Angelo? La lussuria consente a vecchi grinzosi di unirsi a bambine di undici anni «dalla pelle di rosa e i seni dritti»; promuove unioni incestuose; sfrenatezze, per le quali non bastano unguenti, preparati derivati da schifosi animali del Nilo. Le truppe si massacrano. Dagli assedi giungono notizie di violenze inaudite. I barbari che vengono dall’Occidente – ma anche i ribelli, gli stessi latini – stuprano le donne, orinano sugli altari, profanano le immagini sante, sgozzano gli inermi e gli sconfitti. Cosa importa che l’imperatore sia Andronico o Isacco Angelo? Egli può manifestare coraggio o indolenza, impazienza o distacco, ira nella mascella tremante, compassione nelle pupille inebetite. Perché il potere gli viene direttamente da Dio; e, a chi lo critica, può rispondere che «ai regnanti è lecito fare ogni cosa e che fra Dio e il sovrano, nel governo delle cose terrene, non c’è mai un contrasto inconciliabile, l’opposizione che in generale vi è tra il sì e il no».

Infatti, egli può piombare sugli abitanti di una qualunque città come una fiera sulle greggi; e spezzare il collo alle greggi, tagliare mani e piedi, divorare le viscere, cavare gli occhi. Può insanguinare i mari e i fiumi. Disseminare cadaveri a grappoli, essiccati al sole: come quegli spauracchi che i contadini lasciano nei campi, e muove il vento. Oppure può dimenticare i suoi soldati, le cure, gli affanni, e andarsene a caccia; e, magari, perire per un agguato, nella caccia. O può attendere: spiare nervosamente il futuro. E pregare la Vergine Maria, di cui è devoto; San Paolo, di cui è devoto. E banchettare, intanto: divorare montagne di selvaggina, cesti di pesci, otri di vino. E, magari, promulgare leggi per diminuire le tasse, proteggere i naufraghi, costruire opere pubbliche, restaurare le chiese.

Pagine indimenticabili colmeranno il lettore della «Narrazione» di stupore e sgomento. Egli vedrà l’incedere solenne dei patriarchi nelle processioni sacre, lunghe un giorno, dal monastero di «Pantepoptes» a Santa Sofia: la regina delle chiese, «immagine del firmamento in terra». Vedrà la folla tremante e incerta, barricata proprio in quella chiesa, al seguito di una usurpatrice donna: Maria; raccolta attorno agli altari soffusi di incenso, sui quali talvolta le icone piangono. Assisterà a lapidazioni più crudeli di quella alla quale fu sottoposto il martire Stefano. Nell’ippodromo, o al teatro, vedrà usurpatori impalati, teste mozzate, giovanetti innocenti e spauriti sospinti dalle lance al rogo. Vedrà imperatori prosternarsi e baciare i piedi dei patriarchi. Imperatori accecati. Portati in trionfo su un cavallo rognoso. Appesi per i piedi a un gancio – epperò ancora vivi, capaci ancora, a testa in giù, di dire a chi si avvicinava per inferire l’ultimo colpo: «Kyrie eleison… Perché spezzate una canna già infranta?». Vedrà foschi prodigi: l’apparire in cielo di una cometa, nella forma di un serpente attorcigliato in spire orrende, la bocca spalancata a inghiottire la terra. Penetrerà nel buio delle cisterne. Vedrà apparire lettere oracolari nell’acqua livida delle cisterne. Vedrà il buio, reclamato fino al momento della morte, da un funzionario potentissimo e crudele – epperò effeminato, incapace di resistere al sonno. Tutto questo, e altro, vedrà.

Finalmente, con Niceta, non potrà non convenire «che la furia di quel tempo era insopportabile» – per quel tempo, come potrebbe esserlo oggi – poiché «era facile vedere nello stesso giorno la stessa persona incoronata e decapitata, esaltata e oltraggiata». E perché Dio, sicuramente, volgeva gli occhi da quel «mare in tempesta» che era l’impero; dalla città sovrana, alla quale l’imperatore era abbarbicato, come «un gigantesco polipo a uno scoglio».

Giorgio Montefoschi, «Bisanzio. Apocalisse per un impero. Quando i crociati entrarono a Costantinopoli, nel 1204, trovarono una civiltà in sfacelo. Ritorna, dopo quasi otto secoli, la narrazione di Niceta Coniata», in “Corriere della Sera”, lunedì 13 dicembre 1999, p. 25.

Il libro di Niceta Coniata «Grandezza e Catastrofe di Bisanzio» (Narrazione crono-logica, volume II, libri IX-XIV) a cura di Anna Pontani, è edito da Mondadori-Lorenzo Valla, pagg. 796, L. 48.000 e fa parte di un’opera costituita da tre volumi:

Niceta Coniata, Grandezza e Catastrofe di Bisanzio. Vol. I (Libri I-VIII), testo greco a fronte. Nuova edizione aggiornata a cura di Anna Pontani. Introduzione di Guglielmo Cavallo, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori Editore, Milano 2017;

Niceta Coniata, Grandezza e catastrofe di Bisanzio. Vol. II (Libri IX-XIV), testo greco a fronte. A cura di Jan-Louis van Dieten e Anna Pontani, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori Editore, Milano 1999; qui è riprodotta la copertina

Niceta Coniata, Grandezza e catastrofe di Bisanzio. Vol. III (Libri XV-XIX), testo greco a fronte. A cura di Anna Pontani, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori Editore, Milano 2014.

Foto: Due illustrazioni di Gustave Dorè (Fine XIX secolo): a sinistra le macchine d’assedio crociate sotto le mura di Costantinopoli, a destra i cavalieri crociati entrano in città / italicaresblog.wordpress.com