Constans. Le «provocazioni» di Zanussi

I suoi amici lo chiamano affettuosamente Formichino
per la sua paziente, meticolosa, instancabile e diligente attività.
E non si può dar loro torto
perché costruita pezzo a pezzo in oltre dieci anni di serio impegno professionale,
la fama di Krzysztof Zanussi è ormai pari a quella di Andrzej Wajda
sulla scena del cinema polacco.

Di Zanussi sta per arrivare in Italia Constans,
Premio speciale della giuria e Premio Ecumenico all’ultimo Festival di Cannes,
un’ora e quaranta, interpretato da Tadeusz Bradecki nel ruolo di Witold,
il protagonista, («non si può interpretare il suo personaggio senza essere un puro di cuore»
ha detto Zanussi), Zofia Mrozowska e Malgorzata Zajaczowska.

Assunto da un’azienda che organizza mostre ed esposizioni per il commercio estero,
Witold si trasferisce successivamente in India, dove viene a contatto con un’altra civiltà.

Qui, in un ambiente mistico e fatalista all’insieme, Wintold è subito turbato
da vecchi interrogativi che ora lo assillano ancor più intensamente:
la morte di suo padre, perito durante una spedizione alpinistica,
e quella di suo nonno, vittima di un bombardamento durante la guerra,
sono state pure casualità ovvero debbono essere considerate come delitti del destino?

Una degenza di sua madre in ospedale
e i traffici poco puliti dei colleghi
gli fanno scoprire l’indifferenza, l’egoismo, la corruzione.

Subito dopo, la morte della madre lo getta nella disperazione.
In piena crisi («non so più che cosa sia buono e che cosa sia cattivo»),
Witold segue tuttavia la sua tendenza naturale: quella di una intransigente onestà.

Rimosso dal suo incarico a causa dell’ostilità dei colleghi,
Witold deve rinunciare anche a un suo vecchio sogno:
scalare le vette dell’Himalaya.

Dopo aver perso tutto a causa della fedeltà a se stesso e ai suoi principi morali,
Wiltod ritrova infine la serenità frequentando un corso di matematica
e sposando un’infermiera che gli ricorda tanto sua madre.

Al docente del corso che gli chiede: «Crede che il mondo potrà cambiare
se con lei potrà contare su una persona giusta in più?»
,
Witold risponde: «Sì, purché si tratti di un vero giusto».

Alla moglie confessa inoltre il suo unico timore,
che anche lei possa cambiare,
che ognuno di noi perda la sua integrità morale,
la sua onestà, la sua trasparenza.

«Il resto è scritto dal destino» aggiunge WitoId,
«ma non bisogna temere il destino
perché il destino può essere previsto
e le cose che possono essere previste non presentano alcun mistero».

In Constans si ritrovano inoltre tutti i temi ricorrenti del cinema di Zanussi:
il conflitto individuo-società, la ricerca dell’assoluto,
il contributo che la scienza correttamente intesa e applicata
può dare per migliorare la qualità della vita, l’ansia del futuro
e le incertezze esistenziali fugate dalla sicurezza nei valori della persona umana.

In polacco «constans» significa tanto «costante»
(termine scientifico che trova applicazione nel calcolo delle probabilità)
quanto «costanza», fermezza d’animo, fedeltà, perseveranza.

Zanussi, matematico per formazione, poeta e moralista per temperamento,
riunisce in questo gioco di parole due dei suoi principali interessi:
la scienza e la morale, che per Witold rappresentano i due strumenti
che gli consentono di respingere le angosce della fatalità, del destino,
e di trovare il vero senso della vita.

Ma le certezze di Witold non coincidono con quelle di Zanussi,
che nel finale del film propone allo spettatore un nuovo e inquietante interrogativo:
la vita può essere ridotta a una specie di equazione?
E allo stesso modo si può credere ciecamente
che il bene produca soltanto ed esclusivamente il bene?

Risposta tutt’altro che semplice,
che si apre a discussioni filosofiche, teologiche e morali non indifferenti,
che rappresentano il terreno preferito del cinema di Zanussi.

Già in Mimetismo questo conflitto si manifestava fra due insegnanti, il cinico
e l’incorruttibile, e Zanussi traduceva l’insegnamento evangelico «non giudicate»
invitando l’uomo ad aprirsi nei confronti dell’«errante»
perché il bene può nascere soprattutto dall’incontro e dal dialogo.

In Constans, Zanussi va ancora più in là.
Witold è l’eroe positivo per eccellenza,
un personaggio che sembra riesumato da certi film sovietici del periodo staliniano.

L’ultima scena di Constans è quella di un eroe sconfitto,
vinto dal destino che voleva annientare,
quando il bambino che correva dietro al pallone è stato investito dalla trave
che Wintold ha fatto cadere nel corso di un lavoro di demolizione.

Wintold aveva di fatto previsto e calcolato tutto tranne quell’incidente.
La bomba che aveva ucciso suo nonno,
il masso che aveva ucciso suo padre erano dopotutto incidenti prevedibili,
mentre quella trave e quel pallone rivelano la presenza dell’imponderabile.

L’interrogativo che ne consegue è inquietante.
Se Wintold fosse stato meno onesto,
se avesse conservato il suo posto,
in quel giorno e in quel momento non si sarebbe trovato in quel luogo
ad abbattere la facciata di un immobile.
E forse quel ragazzo sarebbe ancora vivo.

Anche i giusti possono essere loro malgrado portatori di morte,
così come le persone disoneste possono invece fare del bene
(è il caso infatti di un superiore di Wintold, arricchitosi con profitti illeciti,
che aveva acquistato medicinali per una donna anziana e gravemente ammalata).

Viene allora in mente il Vangelo di Luca e la parabola del fattore infedele:
«Procuratevi amici con l’iniqua ricchezza
perché quando essa verrà a mancare vi accolgano nelle dimore eterne».

(Capitolo 16 – versetto 9).

Un «paradosso» morale che Zanussi propone quasi con gusto «provocatorio»
(le stesse antinomie fra pensiero e azione
si riflettevano appunto attraverso il motivo di fondo di Mimetismo)
ma che in realtà sottende una più complessa serie di questioni etiche
in relazione al comportamento dell’uomo verso se stesso,
verso il suo prossimo, verso la società tutta.

Enzo Natta, «Le “provocazioni” di Zanussi»,
in “L’Osservatore Romano” mercoledì, 26 novembre 1980, p. 6.

Foto: Locandina del film Constans di Zanussi / nientepopcorn.it

Ciak in periferia, il set architettonico

Il tessuto periferico metropolitano ora è al centro del dibattito culturale e anche delle tante trame filmiche che vanno oltre il concetto di «non luoghi». Viaggio da Genova alle borgate romane di Pasolini alla Palermo di Grimaldi, fino all’antinferno di “Gomorra” e il più recente “Dogman” di Garrone

Il crescente interesse catalizzato dalle periferie urbane e metropolitane nel dibattito pubblico e in sede accademica ci porta a formulare una serie di considerazioni che riguardano, innanzitutto, il modo o i modi con cui esse fanno prepotentemente irruzione nell’immaginario collettivo.

Soggetto assai poco presente nella dimensione letteraria, ha trovato, invece, nel cinema una efficace cassa di risonanza, non esente tuttavia, da ingenuità e mistificazioni. Dalle periferie pasoliniane del sottoproletariato romano a quelle di coloro che si definivano pasoliniani (Caligari, Camarca, Capuano, Grimaldi, Grieco, Minello), che talora, come nel caso di Grimaldi, spostavano l’azione in altre latitudini urbane (Palermo) pur conservando lo spirito originario, all’antinferno napoletano di Gomorra (2008) e dei suoi cascami televisivo-seriali, o di un’opera indipendente come La-bas-Educazione criminale (2011) di Guido Lombardi. Per non dire del recentissimo Dogman (2018) di Matteo Garrone. Napoli o Roma, lo sfondo urbano è sempre lo stesso, segnato da una desolazione quasi metafisica, nel quale si muovono personaggi sospesi tra verità sociale e iperrealtà narrativa.

Oggi le periferie si pongono al centro del dibattito critico e progettuale quasi in contrapposizione ai nuclei storici in un divenire che vede quest’ultimi sposare sempre di più il fenomeno della cosiddetta gentrification con il quale una borghesia emergente si sostituisce alle vecchie classi popolari residenti o alle cosiddette “classi pericolose”, come ebbe a definirle lo scrittore napoletano Mastriani, generando in tal modo nuovi e immensi profitti. Mentre i centri storici di molte città italiane (con l’eccezione dei grandi centri urbani del Mediterraneo come Genova, Napoli, Palermo, etc… dove le periferie fanno prepotentemente irruzione nel tessuto storico degli angiporti, le strade della miseria e dell’umanità) si trasformano in “vetrine del lusso”, suggestivi fondali dove va in scena la rappresentazione e la conservazione dell’antico, quasi luoghi ricreati di un immaginario parco tematico, nelle tante periferie grandi e piccole sorte intorno a inquietanti falansteri, simili a ricoveri per esseri umani in difficoltà o in pericolo piuttosto che ad abitazioni per cittadini dagli uguali diritti, si agitano speranze, conflitti, voglia di riscatto sociale, ma anche degrado e malavita, di una specie diversa e più insidiosa rispetto a quella del passato. È da queste latitudini per molti ancora oscure e impraticabili che nascerebbe la volontà di sperimentare nuove e più umane possibilità di vita urbana laddove all’idea di periferia-ghetto, viene sostituendosi quella di periferia-centro.

Foto: Sopra: Genova, il Biscione (Forte Quezzi), veduta d’insieme / Lucio Massardo in twitter.com Sotto: Genova, il Biscione, un particolare / archipicture.eu

Secondo l’architetto genovese Renzo Piano, da anni impegnato nel recupero di interi brani di architetture e di città “dimenticate”, è proprio in questi luoghi invisibili, di cui non si parla mai «tranne che per parlarne male» come dichiarava Nanni Moretti in un passaggio di Caro diario (1993), che si gioca il futuro delle metropoli. Per troppo tempo si è pensato alla città vetrina delle meraviglie come pare oggi essere diventata la nuova Milano con il sogno nel cassetto di riapertura dei Navigli come riscatto dalla mancanza d’acqua in città e quello già realizzato nella “little America” milanese a Porta Nuova.

L’idea secondo cui, per risanare lo slabbrato tessuto metropolitano sia necessario portare il centro nella periferia, non è affatto nuova. Milano, ad esempio, città radiale e monocentrica per eccellenza secondo un preciso modello rinascimentale, lo ha fatto proprio attraverso alcuni interventi mirati, ossia con l’inserimento di edifici museali, laboratori e atelier professionali, edifici polivalenti, complessi universitari e strutture espositive, da intendere quali volani di un possibile riqualificazione e sviluppo, oppure di interi comparti (come appunto Porta Nuova o Citylife, creature urbane aliene in una città orizzontale, riservate ai pochi per lo sguardo ammirato dei molti), lasciando pressoché invariato tutto il resto, dal momento che a prevalere sempre, è l’idea di eccellenza e non di sviluppo a macchia d’olio sul territorio.

Al contrario, Genova, città policentrica per vocazione, che da mesi sta vivendo il trauma del crollo del ponte Morandi, guarda alle proprie periferie come realtà urbane con una propria identità storica preesistenti rispetto al dissennato sviluppo urbano dal secondo dopoguerra in avanti. La stessa fascia urbana ponentina di carattere popolare e industriale (mentre vi è quella di levante che è prettamente residenziale, caso forse unico in Italia di un corpo, il centro urbano, chiuso nel perimetro storico delle mura seicentesche, da cui si diramano due arti diametralmente opposti per componente sociale e collocazione geografica), direttamente colpita dalla catastrofe del ponte, si stringe intorno ai suoi comitati di quartiere, alle associazioni di volontariato, agli spazi pubblici polifunzionali al servizio dei cittadini, disseminati sul territorio e nel tessuto urbano che in questa parte della città conserva ancora un notevole potenziale di aggregazione civica.

Foto: Sopra: Genova, Ponte Morandi visto dal Santuario di Nostra Signora Incoronata, prima del crollo / Davide Papalini in it.wikipedia.org Sotto: Genova, il Ponte Morandi dopo il crollo / telenord.it

L’idea che insieme e non isolatamente si possa, in un futuro non proprio lontano, ricucire non solo le ferite inferte dalla caduta del ponte ma anche da quell’urbanistica dissennata che ha costruito case intorno ai piloni di un ponte che ormai tutto il mondo tristemente conosce e sui crinali collinari edifici-quartieri periferici ad alta densità abitativa e dai nomignoli curiosi come “lavatrici” o “dighe”. Per una precisa e perfino ostentata scelta di classe, lo scrittore, poeta e intellettuale comunista Edoardo Sanguineti aveva scelto di vivere proprio in uno di questi «non-luoghi». Tuttavia questa stessa definizione in uso nella moderna sociologia urbana, rischia di omologare luoghi magari diversissimi in una sola identità che respinge anziché accogliere nel proprio isolamento autoreferenziale (laddove persistono leggi non scritte estranee ad altri quartieri). Un altro scrittore Maurizio Maggiani che a Genova è vissuto a lungo, parlava del «lungo nastro di ponente», ossia della grande periferia industriale per eccellenza, da molti perfino avversata, come di un luogo multiforme, per il quale nutriva una fortissima attrazione. Va detto, infatti, che nella ricca e composta periferia genovese di levante vi è certamente meno sorpresa, minor varietà di manufatti e una minor complessità urbana. Inoltre è assai lontana quella temperie multietnica che turba, fa discutere, producendo cortocircuiti politici che potrebbero dunque essere fatali per il futuro del paese.

Nel ripensare, infine, al viaggio in Vespa di Moretti verso il luogo della morte di un grande poeta, è possibile, forse, guardare alle periferie come quella di Ostia, come a un luogo reale e simbolico da dove ricominciare nell’arduo compito di ricomporre l’identità delle nostre città, ovvero di una contemporaneità di cui ci sforziamo di essere giustamente protagonisti, sebbene più spesso ci troviamo a essere semplici comparse.

Maurizio Fantoni Minnella, «Ciak in periferia, il set architettonico», in “Avvenire”, mercoledì 2 gennaio 2019, p. 21.

Foto in apertura: Genova, Quartiere San Pietro a Prà, le Lavatrici / ogginotizie.i