Il tempo che vola e non è mai solo nostro e la fede che apre

Caro direttore,

i latini dicevano: “Ruit hora” (il tempo vola). C’è chi, un po’ paradossalmente, afferma che non il tempo passa per noi, ma noi passiamo nel tempo. Questo passaggio è estremamente rapido. Economizziamo il tempo, poiché è tanto prezioso! Solo chi potrà dire di averlo saputo spendere bene potrà anche dire di aver veramente vissuto. Mi auguro, dal profondo dell’anima, che l’anno 2021 porti luci di gioia e di speranza nei nostri cuori in un periodo tra i più bui della storia. Fede, speranza e carità siano le vere e invincibili armi di ogni cristiano e di ogni uomo di buona volontà. Martin Luther King diceva: «Se la paura bussa alla tua porta, manda ad aprire la fede e vedrai che non c’è nessuno».

Franco Petraglia, Cervinara (Av)

Che rapida e intensa riflessione, caro amico! Anche se, a mio avviso, proprio perché così prezioso, il tempo va usato secondo l’unica economia davvero umana, cioè con intelligente generosità. Perché il tempo non è mai solo e interamente nostro. Il suggestivo e profondo insegnamento di Martin Luther King, da lei richiamato, dice anche questo: colei che sconfigge, anzi fa svanire, la paura è la fede, fides, in latino. Una parola che evoca la “corda” di uno strumento musicale, destinata a vibrare in armonia con le altre e anche la “funicella” – come ci ha ricordato in diversi modi Luigino Bruni su queste pagine – che idealmente collega i membri di una comunità. Pensare la fede come la forza che ci aiuta ad «aprire» senza paura è uno degli auguri più belli che ci possa fare all’inizio di un nuovo anno. (mt)

Da “Avvenire”, sabato 2 gennaio 2021, p. 2.

Foto: Ragazzina con cappello / dal mio profilo facebook.com

«I grandi sogni, sogni dei poveri». Fraternità motore del cambiamento

La bella lettera di un giovane lettore, piena di consapevolezza e di desiderio di giustizia dà il «la» all’augurio che dobbiamo saperci fare all’inizio del nuovo anno. Come i cristiani non dovrebbero dimenticare mai, solo la fraternità riconcilia libertà e uguaglianza, le costruisce qui e ora.

Caro direttore,

le scrivo per un’urgenza di coscienza, per non lasciarmi imprigionare dall’indifferenza. Fatico oggi a vedere l’umanità in molti uomini. Non voglio sembrare presuntuoso, ma per me umanità è vita ed è complicato trovarla in chi, con slogan e nulla di più, mette a rischio quella di migliaia di persone. All’ingresso del palazzo dell’Onu ci sono i versi del poeta Sa’di Shiraz, che nel XIII secolo scriveva: «Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo,/ sono della stessa essenza./ Quando il tempo affligge con il dolore/ una parte del corpo/ le altre parti soffrono./ Se tu non senti la pena degli altri/ non meriti di essere chiamato uomo». Oggi tutto sembra capovolto. Chi non merita di essere chiamato e quindi trattato da uomo è chi soffre. È la paura il vero motore della società, ma la paura blocca, induce a costruire muri, chiude i porti e apre le carceri. Per rendersi conto di quanto la paura disumanizzi basta ascoltare il racconto che riesce a fare chi è sopravvissuto al viaggio migratorio. Ma per fare anche solo questo – ascoltare – bisogna abbattere un altro muro eretto dalla paura: il pregiudizio che ci chiude le orecchie e non ci consente di provare compassione per chi abbiamo di fronte.

Malgrado tutto io credo che una soluzione ci sia, non facile ma anzi molto faticosa: accettare che questo mondo di disuguaglianze non possa continuare e quindi, facendo un “mea culpa”, rinunciare alle nostre comodità per andare incontro all’altro. Intendo dire che se oggi noi possiamo vivere così da ricchi è perché da secoli ormai sfruttiamo senza ritegno terre non nostre (prima fra tutte l’Africa), facendo accordi con dittatori da noi messi al governo e facendo finta che l’epoca coloniale sia finita. Capisco bene che non sia possibile, da un giorno all’altro, andarsene da Paesi fino a oggi governati grazie all’appoggio dei nostri eserciti, poiché si creerebbero squilibri geopolitici disastrosi. Il lavoro necessario per ridare dignità senza causare danni è difficile e lungo, e per farlo dovremmo rinunciare noi a qualcosa. Forse se capissimo che chi soffre sono nostri fratelli e non estranei lontani, allora saremmo pronti a provarci.

Sogno anch’io, caro direttore, un cambiamento radicale nella società. Credo anche però che non tutti possiamo sognare così in grande. Io non posso, i ricchi non possono. I poveri sì. Lo dico semplicemente perché, per quanto io possa sognare questo cambiamento, questa “rivoluzione” nel senso più bello e pacifico della parola, in me rimane radicato un attaccamento a tutto il benessere che abbiamo. Un povero invece non può rimanere attaccato ad altro che alla voglia di migliorare la propria vita, a costo di mettere la stessa vita a rischio. Per questo con umiltà ammetto che per cambiare bisogna affidarsi a chi ha meno, ma sogna più in grande. Occorre fare nostro quel sogno.

Emanuele Barani, studente d’ingegneria, Modena

Mi affascinano e mi convincono la saggezza e la speranza della gente semplice e cerco, da una vita, di essere a quell’altezza. Mi piacciono i sogni dei giovani, soprattutto quando coincidono coi sogni di giustizia e di libertà dei più poveri. E mi piacciono, caro amico, i giovani che ragionano come lei, dimostrando di saper fare tesoro delle lezioni di maestri saggi. Credo che lei ne abbia avuto di davvero buoni, e so che alcuni di loro sono missionari della famiglia comboniana.

Mi soffermo su una sua espressione molto importante e che merita una pur rapida riflessione ulteriore: «cambiamento radicale». È vero: la svolta di cui lei parla è assolutamente necessaria. Dobbiamo avviarla subito, per porre fine a una storia di drammatiche e persino vertiginose disuguaglianze che sembrava destinata a finire, almeno nella nostra parte di mondo, e che invece abbiamo ricominciato a scrivere. La sfida che ci sta davanti è perciò grande, ed è duplice: produrre questo cambiamento in modo incruento e renderlo solido e stabile.

Per molti e decisivi anni, nei quali si è strutturato il “modello occidentale” e nei quali ha anche incubato l’attuale era della globalizzazione, abbiano visto darsi battaglia senza quartiere “quelli della libertà” (i mercatisti) e “quelli dell’uguaglianza” (i comuni-sti), poi sono entrati in scena coloro che hanno tentato di riconciliare, in modo più o meno accorto e intelligente, quei due mondi di valori e di concrete scelte politiche resi opposti da ideologie arroganti. Ricette liberal, socialdemocratiche, lib-lab o cristiano-popolari ne sono state il risultato. Dopo la caduta del Muro e la fine dell’impero sovietico, tutto questo sforzo di conciliazione è sembrato inutile. E tutti coloro che ne erano stati artefici o continuatori hanno perso la rotta e addirittura sono arrivati a smarrire il senso della mèta. Sino alla situazione attuale, nella quale sembrano non esserci più medici e ricette per le nostre società ammalate di disuguaglianza e di paura, ma solo guardiani di ferree libertà mercantili, di sregolatezze deliberate per i potenti, di regole arcigne e spesso incomprensibili per i piccoli e i deboli, di stuoli di ciarlatani e di presunti guaritori. Semplifico duramente, ma forse neanche troppo.

Vado al punto. Che cosa manca? Che cosa ci serve per superare individualismo, egoismo, nazionalismo e capitalismo senza rispetto per null’altro che per il profitto? Che cosa può correggere le storture, raddrizzare i torti e cambiare il mondo? Che cosa, insomma, può far crescere l’uguaglianza pur preservando la libertà?

La terza, ma in realtà prima, delle tre mète che concepirono gli inventori di quel sogno imperfetto e bello, che a poco a poco abbiamo imparato a chiamare democrazia: la fraternità. Non le fratellanze, le camarille, le cordate, le consorterie… ma la fraternità, il legame – mai solo d’interesse – che sta alla base del grande umanesimo al quale il cristianesimo ha contribuito in modo decisivo a dare anima e che ogni uomo e ogni donna di buona volontà, a ogni latitudine e dentro alle più diverse tradizioni culturali, possono concepire e vivere. Quella fraternità per cui nessun dolore e nessuna gioia degli esseri umani ci sono estranei o indifferenti, e che conduce a organizzare in modo equo le società, nella consapevolezza che o il benessere è anche e prima di tutto esser-bene o non appaga e non dura.

Il nostro mondo ha bisogno di fraternità, e ne ha bisogno proprio adesso. Ne ha bisogno qui, ora, come risposta mite e forte a una insistente predicazione politica e anche religiosa della inconciliabilità delle diverse parti della nostra comune umanità. Ne ha urgenza proprio mentre più assillanti e apparentemente trionfanti si fanno le visioni e le politiche che non si curano delle radici della disuguaglianza, subordinano anche le libertà fondamentali alla sicurezza e liquidano in modo risentito come “buonismo” anche solo il desiderio di riconoscerci fratelli e sorelle e di agire di conseguenza, nella custodia e nella conduzione della nostra casa comune. Come anche laicamente ci insegnano i grandi Papi che hanno guidato la Chiesa lungo tutto il Novecento e sulle vie aperte dal Concilio, sognare in grande, all’unisono coi più poveri, significa dare al mondo degli uomini e delle donne il senso di una fraternità che rende responsabile la libertà e costruisce la vera uguaglianza. Auguriamocelo. E continuiamo tutti a lavorare per il vero cambiamento nel nuovo anno che ci sta davanti.

Marco Tarquinio, direttore di “Avvenire”

Da “Avvenire”, mercoledì 2 gennaio 2019, p. 2.

Foto: Ragazzina con cappello / dal mio profilo facebook