Gesù deposto dalla croce. Tredicesima stazione. Pietà per i vivi. Via Crucis del malato – Cammino di speranza

Gesù deposto dalla croce. Questa scena
è indicata di solito come «la Pietà»,
e protagonista è la Madonna
che accoglie fra le sue braccia il Figlio morto.

Al fine di capire che cosa sia la pietà,
e come si manifesti,
non ho sicuramente bisogno di leggere libri che me la descrivano.

Tengo infatti incisi dentro i suoi lineamenti,
i gesti, gli atteggiamenti.
E, se e solo se ho bisogno di una raffigurazione,
penso a una qualsiasi delle «Pietà»
create da Michelangelo

(è stupefacente infatti che un artista forte come lui
abbia saputo impiegare il suo ruvido scalpello
al fine di cavar fuori dalla pietra tanta dolcezza;

il che sta indubbiamente a indicare che la vera pietà
non ha niente a che vedere con le svenevolezze,
il sentimentalismo, le sdolcinature,
la condiscendenza, la commiserazione, la debolezza,
ma è invece una forza, una potenza).

C’è sicuramente bisogno di pietà, oggi.
Pietà per i vivi, non solo per i morti.

Può essere facile infatti piangere su una bara,
commuoversi a un funerale,
portare fiori davanti a una tomba,
sospirare al ricordo di un defunto.

Ma bisogna certamente portare un fiore a qualcuno
perché non muoia di solitudine.
Inoltre avere il coraggio di posare una carezza
su un volto sfatto dal dolore.
Ancora: asciugare qualche lacrima,
e soprattutto non farne versare.
Infine, coltivare il ricordo dei vivi.

Gesù è deposto dalla croce.

Penso naturalmente
a un grande esperto di pietà cristiana,
san Camillo de Lellis,
che negli ospedali
celebrava una stupefacente liturgia della misericordia,
della tenerezza, della sensibilità,

inoltre pretendeva che coloro che si accostavano al letto di un malato
impiegassero mani e cuore di madre.

La sua testimonianza,
insieme a quella di san Giovanni di Dio,
resta sostanzialmente valida anche oggi,
soprattutto oggi,
perché non abbia ad allargarsi sempre più
l’ombra raggelante della disumanizzazione
sulle sventure degli uomini.

Gesù deposto dalla croce
Vorrei perciò offrire una specie di Decalogo,
ricavato dalla lezione impartita
e illustrata dagli esempi pratici
forniti da san Camillo de Lellis e san Giovanni di Dio.

Lo dedico soprattutto a coloro che assistono gli infermi.
Resta inteso tuttavia che,
da parte mia,
ci metto tutta la buona volontà
al fine di favorirne l’osservanza,
o almeno non renderla troppo ardua.

… E quando avrai fatto tutto quello che devi fare,
allorché sarai stato ciò che devi essere,
quando non ti sarai tirato indietro
di fronte a nessuna incombenza fastidiosa
e a nessun compito ripugnante…
non ti scordare di ringraziarmi.

Dunque:
Io sono il malato tuo padrone e signore:

Onorerai la dignità e la sacralità della mia persona,
immagine del Cristo sofferente nella sua Passione.

Mi servirai, come madre affettuosa e tenerissima,
con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza,
con tutta la fantasia, con tutte le forze
e con tutto il tuo tempo.

Ricordati inoltre di dimenticare te stesso.

Non nominare il nome della carità invano.
Parlerai preferibilmente con i piedi,
le ginocchia
e soprattutto con le mani.

Guardati dal commettere distrazioni.
Soprattutto pratica la memoria del cuore.

Non uccidere la mia speranza con la fretta,
la ciabattoneria, l’impreparazione;
evita l’indelicatezza, l’irritazione,
come pure l’impazienza, la volgarità.

Mi considererai un tutto.
E tu ci sarai tutto in quello che fai.
Perciò non imprigionarmi in una cartella clinica
e non nasconderti dietro il tuo ruolo professionale.

Soprattutto non sconsacrare il tuo cuore
con il pensiero dominante del denaro.

Desidera fortemente la mia guarigione.
Non dimenticare
che sono entrato all’ospedale per uscirne,
sano, il più presto possibile.

Inoltre non esitare a rubare il mio peso,
a impossessarti della mia sofferenza.
Quando non puoi togliermi il dolore,
almeno condividilo.

Questi Dieci Comandamenti non hanno alcun valore,
se restano scolpiti soltanto sulla pietra,
o solo scritti sulla carta.

Infatti di leggi e documenti e libri
ce ne sono anche troppi,
ma non è che migliorino la situazione.

La pietà cerca la superficie morbida del cuore.
Soltanto seminata su quel terreno,
può portare frutto.

Gesù deposto dalla croce.

Preghiera

Gesù,
Ti ringrazio perché, fortunatamente,
anche nel mondo d’oggi
ci sono persone che imitano il gesto di Tua Madre
quando Ti ha accolto tra le sue braccia
dopo che Ti avevano schiodato dalla croce.

E soprattutto lo ripetono nei confronti dei vivi,
non solo dei morti.

La pietà resta infatti l’unica maniera efficace
per schiodare dalla sua croce un povero cristo
che non ce la fa più.

Signore,
da parte mia
ti offro le mie sofferenze,
i tormenti, le umiliazioni,
oltre al malessere, ai bocconi amari
che devo trangugiare inzuppati di lacrime,

le delusioni
perché spuntino dovunque questi fiori delicati
che facciano retrocedere il deserto della disumanizzazione
che ci minaccia,
sconfiggano col loro profumo delicato l’aria avvelenata
che ci soffoca.

Gesù,
fa’ che tutti,
ma soprattutto le persone religiose,
abbiano il coraggio di rischiare il cuore,
non vergognarsi della loro umanità.

E si diffonda la consapevolezza
che un fiore ha il potere di tenere in vita una persona
quando tutto sembra perduto.

È vero: ci si può, e ci si deve
attaccare alla maschera dell’ossigeno.
Ma anche quando questa sembra insufficiente,
resta pur sempre la possibilità
di attaccarsi al colore e al profumo di una rosa.

Cosi sia.

Alessandro Pronzato,
Via Crucis della Speranza. Tre itinerari,
Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 58-62.

Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto

Via Crucis del malato / Cammino di speranza – VIII Stazione: Gesù e le pie donne piangenti. I consolatori molesti

Lo confesso.
C’è qualcosa che temo più del dolore fisico,
del responso degli esami clinici,
delle terapie cui vengo sottoposto:
le parole.
E queste arrivano inesorabili.
Sì, ogni giorno constato come le parole facciano male,
siano sassi appuntiti che si conficcano nella carne
e fanno urlare silenziosamente,
o lasciano senza fiato.
Quotidianamente vengo sottoposto al bombardamento delle parole,
alla loro implacabile sassaiola.
Parole di consolazione:
false, stonate, vuote, irritanti.
Parole di circostanza:
ipocrite, fastidiose,
ripetitive nella loro meccanicità,
appartenenti a un copione fisso,
a un rituale scontato.
Parole di speranza,
ma che sono la caricatura,
la parodia della speranza,
e finiscono per mortificarla,
o addirittura spegnerla.
Ma quelle che temo soprattutto
sono le prediche sulla sofferenza.
E purtroppo queste non mi vengono risparmiate
da persone devote
che fanno la loro apparizione puntuale nel momento sbagliato,
non trovano mai il tono giusto,
e il cui linguaggio si rivela semplicemente insopportabile.
Quando compaiono nella mia stanza,
con quel sorriso melenso e quell’aria compunta,
non posso fare a meno di pensare agli amici di Giobbe i quali,
dopo essere rimasti in silenzio per ben sette giorni,
alla fine lo sommergono con un diluvio di discorsi,
rimproveri, esortazioni,
lezioni teologiche.
Questi, purtroppo, parlano fin dal primo momento.
Vengono solo per parlare,
per istruirmi.
Le loro chiacchiere devote sono tanto più inaccettabili
in quanto scaturiscono da individui
che, sovente, stanno bene in maniera spudorata,
e quindi lasciano cadere i loro sermoni
dall’alto del loro essere sani.
Mi fanno pesare la loro superiorità,
la superiorità di chi sta dall’altra parte,
non è toccato dall’infermità,
non è nemmeno sfiorato personalmente dalla miseria.
E perciò la loro compassione mi umilia,
mi avvilisce.
Danno risposte a ripetizione,
senza neppure aver cercato di capire le mie domande,
i miei problemi.
Concordo pienamente con le parole di Giobbe:

«Ne ho udite già molte di simili cose!
Siete tutti consolatori molesti.
Non avranno termine le parole campate in aria?…
Anch’io sarei capace di parlare come voi,
se voi foste al mio posto:
vi affogherei con parole…» (Gb
16,2-4).

Come non indovinano le parole giuste,
così non indovinano mai la posizione giusta.
O troppo distanti,
fino ad apparire estranei,
fondamentalmente indifferenti.
O troppo vicini,
con la loro indiscrezione e invadenza,
fino a soffocare.
Non sanno mantenersi su quella soglia inviolabile
che dice partecipazione ma anche rispetto,
delicatezza, comunione silenziosa.
Talvolta mi vien voglia di buttar loro in faccia:
«Tacete, rispettate il mio dolore, non maltrattate il mistero.
Nessuno – tanto meno l’Interessato –
vi ha autorizzati a farvi avvocati d’ufficio di Dio,
a difendere la sua causa».
Pure a me,
come a Giobbe,
appare intollerabile il silenzio di Dio.
Ma, dopo aver ascoltato certi discorsi pii e untuosi,
penso sia più facile sopportare il silenzio ostinato di Dio
che le facili parole degli amici di Dio,
le ciarle di coloro che presumono parlare a nome di Dio.
L’accettazione del mistero,
dello scandalo del male,
risulta più pacificante di certe spiegazioni.
Il mistero è luce crocifiggente,
oscurità luminosa.
Le chiacchiere aumentano la confusione.
Pretendono spazzar via i nuvoloni neri del dubbio,
degli interrogativi, delle questioni laceranti,
e finiscono, con i loro gelidi moralismi e schematismi,
per dissipare la speranza.

Preghiera
Gesù, sperimento con sempre maggior evidenza
che esiste una compassione che viene dall’alto,
proprio come certa elemosina dei ricchi,
certa carità dei benestanti,
che sottolinea la distanza, la diversità,
e aggrava la situazione,
non crea un rapporto.

Tu, invece,
sei un Dio di pietà, compassionevole.
Ma la Tua compassione nei miei confronti l’accetto con gratitudine,
e mi dà sollievo,
perché – passami l’eresia – viene dal basso,
a livello di croce comune,
da una segreta complicità di miseria.

Grazie, Signore,
perché ti accosti al mio dolore
non con un testo teologico
che offre tutte le spiegazioni,
ma con una croce assurda, scandalosa,
impossibile più della mia.
E, siccome porti quella croce spropositata,
non Ti resta più fiato per parlare.

Io, però,
mi accontento di avvertire i battiti del Tuo cuore in tumulto,
quasi sul punto di scoppiare,
sintonizzato con il mio.
Amen.

Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari, Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 36-39.

Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto

Via Crucis del malato / Cammino di speranza – VII Stazione: seconda caduta. Tra solitudine e attesa

È l’attesa che mi logora.
Gran parte del mio tempo viene smangiata proprio dall’attesa.
Attesa tormentosa dei risultati di quell’esame
che non arrivano mai.
E le ragioni che mi vengono fornite
hanno tutta l’aria di puerili pretesti
per nascondermi la verità.
Attesa della medicina che compia il miracolo,
o faccia almeno sparire il dolore.
Attesa del medico,
che però oggi sembra non possa venire,
a quanto mi dicono.
Attesa di quel favore che ho implorato con insistenza,
ma probabilmente hanno dimenticato la mia richiesta,
figurarsi, con tutto quello che hanno (o non hanno) nella testa…
Attesa di quella visita.
E arrivano tante visite,
per i motivi più diversi,
meno quella che desidero intensamente io,
e che mi sento in diritto di pretendere.
La porta che rimane ostinatamente chiusa.
Il telefono che non squilla,
o, quel che è peggio,
squilla per farmi sentire voci e messaggi
che preferirei non ascoltare.
La posta che mi recapita cose banali,
da buttare subito nel cestino,
senza degnarle di uno sguardo.
Attesa di qualcuno che mi ascolti,
e non stia semplicemente a sentirmi
con malcelata sopportazione.
Attesa che cessi quel rumore che mi spacca la testa,
tacciano quelle voci,
il vicino spenga finalmente il televisore.
Attesa che diventa una tortura durante le notti d’insonnia,
quando ho l’impressione che,
per una congiura malvagia,
abbiano bloccato
o rallentato fino all’esasperazione tutti gli orologi.
Non succede assolutamente nulla.
Tutto prevedibile,
e non certo piacevole.
Manca l’elemento sorpresa.
Manca il gesto dettato dalla fantasia.
Senso di frustrazione
derivante dalle attese regolarmente deluse
e dalla solitudine che mi assedia.
Ho la sensazione
che si dilati attorno a me uno spazio desertico
che impedisce i contatti,
taglia le comunicazioni,
impedisce i rapporti.
Inutile piangermi addosso.
Devo rialzarmi da questa situazione penosa di abulia,
inedia, disincanto, tedio.
Non posso continuare ad aspettarmi le novità dagli altri.
Bisogna sia io a far succedere qualcosa di nuovo,
di bello,
cavandolo da dentro di me.
Occorre ritrovi il mio miglior amico:
me stesso.
Oserei dire che sarebbe opportuno
tentassi di stabilire un rapporto pacifico col mio male,
gli parlassi amichevolmente,
stabilissi con esso una buona relazione.
Nessun cedimento,
beninteso,
ma neppure ostilità pregiudiziale.
Inutile ignorarlo e tenergli il muso.
Soprattutto è necessario
riscopra quella Presenza abituale,
anche se invisibile.
Lui c’è:
discreto, partecipe, insostituibile.
Lui sa cosa si prova.
Perché anche Lui è «caduto» nella solitudine
e nell’abbandono più totale.

Preghiera
Quante volte, Signore,
piagnucolo: «Nessuno mi capisce…».
E non mi rendo conto che,
dicendo così,
faccio torto a Te.
Tu comprendi la mia delusione,
le mie attese vuote.

Sai cosa vuol dire sentirsi soli
anche se circondati da molte persone.
È inevitabile.

Nessuno di coloro che mi stanno accanto,
anche se lo vorrebbero sinceramente,
riescono a «entrare» nel mio dolore.
Rimangono necessariamente sulla soglia.

Nessuno,
neppure la persona che mi ama,
e che amo più di ogni altra,
ha la capacità di capire cos’è la mia sofferenza
e di che cosa è fatta.
Nessuno all’infuori di Te.

Che,
proprio perché comprendi,
taci.

Proprio perché sei vicino,
non ti fai notare,
sembri addirittura assente.
Signore, tendimi la mano.

Rendimi consapevole
che soltanto quando accetto serenamente la solitudine
non sono solo.
Amen.

Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari, Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 33-35.

Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto

Via Crucis del malato / Cammino di speranza – VI Stazione: la Veronica. Lasciatela entrare…

Ho aspettato fino all’ultimo che arrivasse,
forse c’era stato un intoppo,
un disguido, una dimenticanza.
Niente da fare.
Lei non si è fatta vedere.
Ho saputo poi che l’avevano tenuta fuori,
a bella posta,
perché non teneva le carte in regola per entrare in chiesa,
veniva perciò considerata un’intrusa,
un’abusiva.
Sono andato a chiedere spiegazioni al dotto sacerdote
che aveva commentato quella Via Crucis
da cui, insieme alla Veronica,
erano sparite altre cose.
Mi ha risposto,
con un agghiacciante sorriso di compatimento e sufficienza,
che avrei dovuto sapere
che in nessun racconto della Passione
registrato dai Vangeli
compare quella donna
munita di lino
con su stampato il volto di Cristo.
Ha aggiunto che era necessario «ripulire»
(ha detto proprio così)
le devozioni popolari da tutti gli elementi leggendari
e superstiziosi.
Mi è venuto un groppo in gola
e non sono riuscito a replicare.
Avrei voluto dire a quel prete epuratore
che un’operazione del genere
veniva purtroppo compiuta ogni giorno
in certi ambienti ospedalieri.
Veronica era stata brutalmente estromessa,
e non aveva più il permesso di entrare.
Non doveva stare tra i piedi
e intralciare il lavoro delle signore Professionalità,
Tecnica, Sperimentazione,
Analisi, Competenza, Specializzazione,
e del signor Rigore Scientifico,
del signor Organigramma,
e altri appartenenti alla stessa famiglia del Progresso Medico.
Spiacenti,
ma lei, Veronica,
non ha frequentato i corsi di aggiornamento,
è perfino sprovvista di camice bianco
e il suo lino non è stato sterilizzato.
I risultati di questa esclusione si vedono
e sono i malati che li scontano sulla propria pelle.
Fortuna che non da per tutto è così.
In altri ospedali Veronica può circolare liberamente.
È stata riammessa,
più o meno clandestinamente,
dopo aver constatato le devastazioni prodotte dalla sua assenza.
Qualcuno si è reso conto che,
accanto alle apparecchiature più moderne,
si doveva far posto anche al vecchio,
glorioso fazzoletto della Veronica
con su stampati i lineamenti dell’Uomo
che conosce il soffrire.
Veronica diventa il simbolo insostituibile dell’umanità,
della delicatezza, del rispetto,
della sensibilità, della misericordia,
della fantasia dell’amore.
È il cuore che vince sulla fredda intelligenza,
l’estraneità, la burocrazia, il mestiere.
È la pietà che prevale sulla durezza,
la fretta, l’arido senso del dovere
(esso pure sovente dimenticato).
È l’elemento sorpresa
che spezza la squallida catena della ripetitività,
delle abitudini,
dei gesti scontati,
dei programmi terapeutici.
È la vulnerabilità
che sconfigge l’imperturbabilità, il distacco.
Riportiamo dunque,
con tutti gli onori,
la Veronica in chiesa
e in tutti i luoghi della sofferenza.
Quello spazio scolorito
provocato dalla rimozione del quadro della Via Crucis
è brutto a vedersi
e provoca da per tutto crepe di disumanità.

Preghiera
Ti ringrazio, Signore,
perché Veronica non è scomparsa
da questa terra inzuppata di lacrime e sangue.
Anche se non ha sempre i documenti in regola,
e viene mal sopportata,
derisa, guardata con fastidio,
lei non esita a staccarsi dal muro compatto
degli spettatori neutrali e impassibili.
Io sono sicura che viene mandata da Te.

Dopo che, quel giorno,
l’hai incontrata sul Tuo cammino
e hai beneficiato del suo gesto,
Tu la spedisci regolarmente in mezzo a noi,

tuoi fratelli nel dolore e nella speranza.
Incaricata di portarci,
stampato nel suo lino,
il volto con i tratti inconfondibili di un Dio compassionevole.
La reliquia che più ci interessa,
di cui non possiamo assolutamente fare a meno.
Ti diciamo grazie.

Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari, Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 30-32.

Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto

Via Crucis del malato / Cammino di speranza – V Stazione: il Cireneo. Confusione di croci

C’è qualcosa che mi disturba in questo episodio
che ha quale protagonista il Cireneo.
I vangeli dicono che «lo costrinsero», «lo requisirono».
Dunque, non si è offerto spontaneamente.
È un forzato della croce.
Ha svolto quel compito,
perché non poteva rifiutare.
Questo, almeno, come punto di partenza.
Poi, chissà,
magari ci ha messo anche un pizzico di compassione,
a poco a poco si è stabilito tra lui e il Condannato
un rapporto di amicizia.
Lungo la strada possono succedere tante cose…
Certo,
io vorrei che tutti coloro che si occupano di me,
lasciassero almeno intuire
che sono mossi da qualcos’altro
oltre che dal dovere,
dai soldi, dal mestiere,
dalla curiosità, dall’interesse scientifico.
È il qualcos’altro che conta per me.
Desidero che mi vedano,
prima di tutto.
Ossia,
che non si limitino a vedere la mia malattia,
ma si accorgano di me,
dei miei problemi,
delle mie difficoltà,
della mia situazione concreta.
Pretendo
che non si accontentino di leggere la mia cartella clinica,
i risultati degli esami di laboratorio,
il percorso della febbre,
il livello della pressione,
il programma terapeutico.
Insomma,
gradirei che si occupassero di una persona,
non di un caso clinico.
Leggessero il mio animo,
i miei pensieri,
non solo le carte.
Si rendessero conto
che c’è una parte di me
che non viene fotografata dalle radiografie;
che il mio essere
non può venire «affettato» da nessuna Tac;
che la mia anima
sfugge alle indagini del microscopio elettronico più sofisticato.
Insisto a credere
che il camice bianco non giustifica la fretta,
l’impassibilità,
il distacco,
la freddezza,
il fastidio,
la durezza.
Arrivo a sostenere
che l’esame del cuore non dovrebbe riguardare solo il paziente.
Apprezzo, certo, l’abilità tecnica,
la preparazione professionale.
Ma mi aspetto anche l’umanità,
il coinvolgimento personale,
la sensibilità.
Proprio vero
che i sentimenti non c’entrano almeno un poco?
E neppure le emozioni?
Ecco,
ciascuno di noi è tentato di disegnare
il ritratto del Cireneo ideale.
E, da parte sua,
il Cireneo in camice bianco
tiene in testa l’immagine del paziente ideale:
non ingombrante,
non fastidioso,
che non pone domande,
non fa perdere tempo,
accetta tutto,
si accontenta,
non fa storie,
se ne sta buono,
non si lamenta di niente…
Comunque, devo convincermi
che anch’io devo aiutare il Cireneo,
dargli una mano
nella sua non sempre gradevole incombenza,
non rendergli eccessivamente gravoso il compito,
comprendere anche le sue difficoltà,
indovinare i suoi guai.
Si tratta di non fissare rigidamente le parti:
chi deve soltanto dare,
e chi è in diritto esclusivamente di ricevere.
Legge dello scambio, insomma;
o, se preferiamo,
mescolamento delle croci.
Mettere leggerezza nella propria,
e togliere un po’ di peso a quella altrui.
Preghiera
Oggi ho capito
che non posso aspettare semplicemente il Cireneo di turno
lungo la mia strada dolorosa.
Pure io devo farmi Cireneo di qualcuno,
uscendo fuori dal bozzolo dei miei malanni.
Non importa che già la mia croce sia tanto pesante.
Devo accorgermi di qualcuno,
come me,
che non ce la fa più.
Quando io mi accollo il peso degli altri,
mi accorgo che il mio è diventato più lieve.
Miracolo provocato dallo…
scambio di croci.
Allorché sono a corto di speranza,
sarà bene provveda ad alimentare la speranza di un altro.
Quando la mia fiammella è sul punto di spegnersi,
devo accorrere a ravvivare quella altrui.
E sia benedetta… la confusione di croci.
Amen.

Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari, Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 27-29.
Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto

Via Crucis del malato / Cammino di speranza – IV Stazione: incontro con la Madre. Voglia di tenerezza

L’ho sempre considerata
come la «stazione» più difficile da interpretare.
Indubbiamente il Figlio gradisce trovare Maria
lungo la propria via dolorosa.
Nello stesso tempo, però,
avrebbe voluto risparmiarle quello spettacolo penoso.
Insomma, consolazione e tortura al tempo stesso.
Io stesso vivo la medesima situazione
con le persone che mi sono più care.
Da una parte,
ho bisogno della loro presenza partecipe,
ho voglia di tenerezza.
Dall’altra,
soffro terribilmente nel… farli soffrire
mostrando loro il mio stato.
E così gli incontri si svolgono all’insegna della trepida attesa
ma anche dell’angoscia più tormentosa.
E, spesso,
risultano imbarazzanti da tutte e due le parti.
Spesso si finisce per recitare insieme
un penoso gioco degli inganni.
Loro fanno finta di ignorare il mio male,
ne minimizzano ostentatamente la gravità.
E io, quando ci riesco
(devo riconoscere: non sempre)
maschero la sofferenza,
ricaccio in gola le lacrime
fino a rischiare il soffocamento,
nascondo l’angoscia,
non lascio trapelare i dubbi che mi assillano.
Ci si illude a vicenda.
Ma nessuno, nell’intimo,
è convinto della propria parte,
interpretata piuttosto maldestramente.
Forse devo trovare il coraggio
non solo di sopportare la sofferenza,
ma anche di far soffrire chi non vorrei mai far soffrire.
Imparare l’umiltà,
che consiste nel permettere all’altro
di partecipare in verità al mio dolore.
Nella convinzione che il più grave torto che possa fare
alla persona amata
è quello di impedirle di condividere la mia sofferenza,
portare il mio peso.
Io amo realmente l’altro,
non quando lo escludo dalla mia infermità,
ma allorché gli consento di vederla,
toccarla, impossessarsene, lasciarsene ferire.
E, se non riesco a trovare le parole giuste,
allora rimane pur sempre il messaggio degli occhi,
il linguaggio del silenzio.
Due finte forze si risolvono in debolezza.
Due debolezze riconosciute,
e saldate insieme,
possono diventare una forza.
Il contagio della sofferenza,
quando avviene in un rapporto di amore,
rappresenta una forma di guarigione.
Ossia, il mio dolore, la mia infelicità,
allorché «infetta» una persona cara,
si trasforma in salvezza per entrambi.
Gesù non ha risparmiato a Maria quello spettacolo atroce.
E lei non ha risparmiato al Figlio la visione del proprio strazio di madre.
Si sono, per così dire, «passati» il loro dolore,
provocando una fiammata di amore,
che ha toccato e guarito il mondo intero.

Preghiera
Maria,
rendimi cosciente che,
per coltivare la speranza,
bisogna prima di tutto liberare il campo dalle illusioni.
La speranza,
mi rendo sempre più conto,
nasce dal dolore,
non dalle illusioni.
La luce della speranza spunta soltanto
là dove si sono eliminate le maschere,
le ipocrisie, le finzioni e gli inganni,
e si è messo allo scoperto un corpo dolente,
un volto rigato di lacrime e sangue.
Maria,
fammi capire
che un «dolore a due»
ha il potere di generare la speranza.

Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari, Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 24-26.

Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto

Via Crucis del malato / Cammino di speranza – Terza stazione: prima caduta. Pesantezza, lacrime e sorriso

Tutt’a un tratto ti senti come svuotato di energie.
Ti eri imposto di reagire,
affrontare la nuova situazione con coraggio,
rassegnazione, serenità.
Ed ecco che, di colpo,
ti ritrovi a terra:
avvilito, sfiduciato, deluso, sfinito,
in preda alle paure più diverse
(paura di non farcela,
non tornare più come prima,
essere ingannato da tutti,
non riuscire a sopportare il dolore,
dover affrontare un’altra prova,
fare quell’esame,
essere sottoposto a quella terapia,
subire quell’intervento…).
Rimastichi i pensieri più amari.
Sembra sia sparito il cielo sopra di te.
Sei schiacciato a terra.
Hai l’impressione di avere gli occhi e la bocca incollati alla polvere della terra.
«A te levo i miei occhi / a te che abiti nei cieli» (Sal 123,1).
Vorrei, ma non ne ho la forza.
Comunque, ora so che anche Lui,
in questa stazione,
è caduto dal cielo
e morde la terra come me.
Dunque,
lo sguardo è puntato verso il basso.
Mi lascio andare,
abbandonandomi alla pesantezza.
Bocconi,
con la faccia rivolta al pavimento,
nessuna reazione, nessun sussulto.
Sparita perfino la voglia di rimettermi in piedi.
Qualsiasi parola,
anche la più innocua,
pronunciata da chi mi sta accanto,
mi ferisce,
mi insospettisce,
mi mette in apprensione,
attizza un processo inarrestabile di previsioni cupe,
immaginazioni catastrofiche,
visioni pessimistiche.
L’esercizio preferito è quello dell’autocommiserazione.
Mi accanisco a torturarmi con i pensieri più assurdi.
Sto diventando il nemico di me stesso.
No, non aspettare che qualcuno, dall’esterno, ti tiri su.
Nessuno, per quanto lo voglia, ne è capace.
Sei tu che devi trovare l’appiglio.
Più sembra fragile,
e più ha il potere di risollevarti.
Una preghiera,
una semplice invocazione,
un sorriso,
un fiore,
un ramo verde,
un profumo,
una musica…
«Mia forza e mio canto è il Signore» (Sal 118,14).
Ma non aspettare a cantare
quando avrai ritrovato le forze.
Devi ritrovare il canto,
perché è il canto,
la lode al Signore che produce la forza,
non viceversa.
Canta nella debolezza, canta senza voce,
senza fiato,
senza un motivo preciso,
e acquisterai leggerezza,
sconfiggerai l’angoscia.
Proprio come un bambino
che canta per esorcizzare la paura del buio.
Non aspettare a cantare allorché sarai in piedi.
È nella caduta,
quando sei pesto,
che devi cavar fuori dal cuore quella melodia
che ti fa ritrovare la posizione eretta.
La nota giusta non te la danno gli altri.
La scovi dentro di te,
magari un po’ stridente,
all’inizio,
ma non importa:
a poco a poco acquisterà una dolcezza sorprendente.
E tu sconfiggerai la pesantezza.

Preghiera
Signore,
se è vero quel che afferma un Salmo (56,9),
che «le mie lacrime nell’otre tuo raccogli»,
devo concludere
che tieni una botte di grosse proporzioni
soltanto per contenere le mie lacrime.
Così sono certo
che nessuna lacrima va perduta,
è inutile, sprecata.
Tu le conservi tutte gelosamente.
Sono il mio capitale,
il tesoro prezioso che mi appartiene
e fruttifica.
«Chi semina nelle lacrime / mieterà con giubilo» (Sal 126,5).
Intanto, però,
vorrei riscuotere almeno un minuscolo anticipo,
un modesto frutto di quella abbondante seminagione nelle lacrime.
Il frutto di un sorriso.
Mettimelo sulle labbra,
quale primizia di un raccolto promettente.
Amen.

Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari, Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 21-23.

Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto

Via Crucis del malato / Cammino di speranza – Seconda stazione: la croce. Le misure sbagliate e il peso eccessivo

«Perché è toccato proprio a me?», è stata la prima domanda.
E, dietro quella, alla rinfusa,
ne sono spuntate tante altre:
«Perché proprio questa croce doveva capitarmi?…
Non me l’aspettavo…
Non l’avrei mai immaginato…
Non mi sento •preparato…».
Oppure:
«Perché proprio in questo momento?
Con tutto quello che avevo da fare…
Adesso che pensavo di…
Avevo deciso di…
Mi ero impegnato a…».
La croce non è quella che avresti pensato.
E non arriva nel momento giusto.
La croce è sempre irriconoscibile,
inattesa, sorprendente, sconvolgente.
Giunge regolarmente a sproposito.
Non è nemmeno quella che avresti scelto tu,
se te ne fosse stata offerta la possibilità.
La croce non è mai quella giusta.
Ti sembra non sia la tua,
non ti vada bene,
ci sia stato un errore di consegna.
Inutile sgranare la litania dei perché.
La croce è tua precisamente
perché non è costruita sulla tua misura,
risulta spropositata,
ha un peso eccessivo,
non tiene conto delle tue forze,
o della tua mancanza di forze.
Non illuderti di sostituirla,
né tanto meno di abbellirla.
La croce è brutta a vedersi,
ruvida, ripugnante,
scortica le spalle,
e non solo le spalle.
Cerca di riconciliarti con la tua croce:
tua perché non fa per te,
non è fabbricata su misura,
è troppo,
non rispetta i tuoi orari,
contraddice le tue previsioni,
manda all’aria i tuoi programmi.
Lui non ha detto una parola.
Si è incamminato,
curvo sotto un peso schiacciante,
lungo quella strada,
senza domandarsi se rientrava nei suoi itinerari.
Il vangelo secondo Luca informa
che «lo conducevano via» (23,26).
Giovanni precisa
che Gesù «portando la croce, si avviò…» (19,17).
La «via dolorosa» non rispetta i nostri gusti,
non tien conto delle nostre preferenze.
Ti costringe a passare là dove non vorresti.
Non scegli tu la croce,
come sceglieresti un gingillo.
La croce non è amabile.
Gesù non ti comanda di amarla.
Lui stesso non ha amato la croce.
Ha amato gli uomini fino alla croce
e attraverso la croce,
che è tutt’altra cosa.
L’infermità non va amata in sé.
Devi, piuttosto, amare la vita,
amare… l’amore.
Diffida di un certo dolorismo compiaciuto ed esasperato.
Guardati da un certo vittimismo ambiguo.
La croce va accolta nell’amore,
portata con amore,
deve diventare espressione di amore,
tradursi in esperienza di amore.
Gesù non ti chiederà
se hai amato la croce.
Ma se la croce ti ha condotto ad amare di più Lui,
a capire e compatire i fratelli,
a riconciliarti con te stesso
e con i tuoi limiti.

Preghiera
Qualcuno ha detto:
«Il mio dolore io l’ho preso in mano
come uno strumento di lavoro».
Anche per Te la croce è stato un attrezzo di lavoro.
E pure io vorrei fare altrettanto.
Certo,
mi piacerebbe sapere che cosa ne verrà fuori.
Ma devo accontentarmi di lavorare con Te e per Te,
e per chissà quanti altri.
Sospettare che,
solo alla fine scoprirò
che abbiamo fatto, insieme, qualcosa di buono.
E perfino di bello.
A vantaggio di tutti.
Così sia.

Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari, Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 18-20.

Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto

Via Crucis del malato / Cammino di speranza – Prima stazione: la condanna. Che male ho fatto?

Fino all’ultimo hai sperato si trattasse di un errore,
ci fosse uno scambio di persona.
Poi lui, in camice bianco al di là della scrivania,
ha pronunziato
con evidente imbarazzo e con fretta professionale
quelle parole,
che tu hai accolto come una sentenza,
anche se non ne hai afferrato il significato preciso.
In quel momento,
dopo un primo moto di incredulità («ma non è possibile…»),
hai avuto la sensazione che il mondo ti crollasse addosso,
e il pavimento si spalancasse sotto i tuoi piedi
per inghiottire te e il tuo male
in un abisso di rabbia impotente,
in un baratro di disperazione vana.
Di colpo,
i tuoi programmi si sfasciavano,
i progetti crollavano miseramente.
Hai avvertito la cosa come un’ingiustizia enorme, intollerabile.
Perché proprio a me?
Che male ho fatto per meritarmi questo?
Anche Pilato ha posto la stessa domanda a proposito di Gesù:
«Che male ha fatto?» (Mc 15,14).

No, non hai fatto nulla di male,
salvo la «colpa» di nascere uomo o donna,
con un corpo sprovvisto di certificato di garanzia per i guasti,
e quindi con la possibilità che qualcosa a un certo punto non funzioni più,
senza alcuna spiegazione logica.
Convinciti:
la malattia non è la punizione di un Dio crudele,
e nemmeno uno sciagurato incidente
provocato da una Sua banale distrazione.
Tu sei peccatore,
come me, come tutti, Papa incluso.
Eppure non devi sentirti castigato.
I giorni che verranno
non equivalgono a una pena da scontare.
Lui ha già pagato in anticipo.
Lui, l’Innocente, eppure condannato.
Non ti dico che la malattia è un dono,
una carezza divina,
come assicura qualcuno che non l’ha mai sperimentata sulla propria pelle:
avresti giustamente l’impressione di una presa in giro.
Ti suggerisco soltanto
che è un’occasione da non perdere.
O, se preferisci,
la possibilità di una vita diversa;
diminuita, ma pur sempre vita.
Non considerarlo un tempo vuoto.
Se stai attento,
oltre a osservare le prescrizioni mediche,
ti accorgerai che ci saranno parecchie cose importanti da fare:
un po’ di ordine «dentro»,
una sistemazione migliore dei valori,
una visione nuova dell’esistenza,
l’inventario delle cose che contano veramente,
un equilibrio diverso da ritrovare.
Soprattutto scoprirai
che c’è un esercizio fondamentale da compiere:
ritrovare i tuoi pensieri.
Paradossalmente, li ritroverai al buio.
Non penserai più i pensieri degli altri.
Nel dolore, nella debolezza, nella solitudine,
i tuoi pensieri,
tolte le croste delle abitudini e dei condizionamenti,
dissolte le illusioni,
saranno veramente tuoi
e ti accompagneranno lungo la strada della speranza.
Ti gira ancora la testa,
dopo aver ascoltato quella sentenza inattesa.
Adesso, però, la testa,
anche se gira ancora un poco,
può servire per elaborare ed ospitare qualche pensiero insolito.
Prova a ripetere con convinzione:
va bene così,
anche se non sto troppo bene…

Preghiera

Tu, almeno,
hai saputo subito con esattezza
che cosa ti aspettava.
Io, invece,
sono condannato all’incertezza,
al dubbio sulla mia sorte.
Non so se… quando… come…
Gesù,
non nascondo la mia delusione e la mia paura.
Allungami la tua mano.
Sì, in questo momento
non ho bisogno di parole,
ma della tua mano di Condannato ingiustamente.

Quel contatto mi aiuterà a vivere serenamente nell’incertezza.
Ad accorgermi delle possibilità

disseminate lungo questo itinerario doloroso
in cui sono stato buttato.

A non perdere nessuna occasione di speranza.
Così sia.

Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari, Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 15-17.

Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto